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IL RINASCIMENTO NEL FEUDO DI AIETA - MARIA GIUDITTA GARREFFA
Quando la
Storia ufficiale, quella dei libri di testo scolastici, per intenderci,
affronta lo studio del Rinascimento, focalizza l’interesse soprattutto
sulla Roma dei papi mecenati e nepotisti: Alessandro VI Borgia, Giulio II,
Leone X. Si sofferma anche sulle vicende delle splendide signorie del
centro-nord del tardo ‘400 e del ‘500: la corte estense di Ferrara, la
splendida Mantova dei Gonzaga, le signorie toscane e la corte sforzesca di
Milano. Solo marginalmente vengono presentate le conquiste del pensiero
del Sud di quel periodo, come se non fosse la culla della civiltà
nazionale.
Il regno di Napoli, negli anni della rinascita dello splendore artistico e
culturale, non fu certo meno proteso verso la conoscenza, sotto tutti i
profili, rispetto alle altre corti della penisola. Se si analizza con
rigore e con attenzione la sua storia attraverso i corposi documenti
cartacei e non, ci rendiamo conto che il Rinascimento rifulse,
contemporaneamente alle altre signorie, in modo originale e raffinato
anche nella spagnoleggiante corte aragonese. E’ facile appurare che i
fermenti della rinascita, come per il resto d’Italia, erano evidenti già
durante il regno di Alfonso il magnanimo (1442- 1458). Questi, sebbene
molto legato alle abitudini della Spagna e contornato da funzionari
spagnoli, spesso opportunisti e corrotti, diede vita ad un movimento di
forte pulsione artistica e letteraria. Anche nel suo entourage si verificò
il fenomeno del mecenatismo presente tra le varie signorie e molti furono
gli umanisti da lui accolti e promossi. E’ il caso del Pontano, con la
sua Accademia Pontaniana, del Sannazzaro, del Chariteo. Alfonso, in campo
urbanistico, favorì anche il restauro e la ricostruzione di interi
quartieri; cercò di ristrutturare gli antichi rioni della città,
facendone costruire dei nuovi. Nella zona del centro storico della
capitale fece rialzare un arco trionfale e dispose l’allargamento delle
vie cittadine. Nonostante ciò non fu un sovrano ben accetto al popolo
perché i napoletani gli riscontravano atteggiamenti da conquistatore e da
straniero. Il suo successore, il figlio naturale Ferrante, salito al trono
con il nome di Ferdinando I, continuò l’opera di cura e di ampliamento
della città; favorì, anch’egli, il fermento culturale e in generale
adottò una politica più accorta e condiscendente verso il popolo
rispetto al padre. Durante il suo regno, però, si verificò la rivolta
dei baroni (1485), che egli fece reprimere con ferrea decisione, non
considerando che proprio dai baroni poteva venirgli la stabilità del
regno.
In tale contesto si muovono anche i signori del feudo di Ajeta, che nel
tardo Quattrocento manifestavano chiara simpatia per i francesi. Tommaso
di Lorya, a causa del suo schieramento filoangioino e alla partecipazione
attiva alla rivolta dei baroni, perse il feudo, che fu assegnato dal re
Ferdinando II al barone Giovanni de Montibus ( op. Aieta, pagine della sua
storia civile e religiosa di Giuseppe Guida ed. Pellegrini Cosenza 1991).
Nelle vicende interne della baronia, si legge chiara la tendenza dei
signori, che vi si avvicendarono tra il Quattrocento e il Cinquecento,
alla costante attenzione agli eventi riguardanti tutto il regno e
l’intera penisola. Bernardino Martirano (1490-1548), insigne studioso,
teologo, giurista e latinista, signore di Ajeta, ebbe relazioni di studio
anche con umanisti come il Tansillo e Bernardino Telesio. Si distinse per
una brillante allocuzione pronunciata durante il Concilio di Trento.
Presso la corte fu un valente uomo di governo e consigliere di Carlo V.
Abitualmente risiedeva in una sontuosa villa, a Leucopetra, nei pressi di
Napoli, dove ospitò l’imperatore di ritorno da Tunisi, dopo la
sconfitta dei pirati barbareschi (v. G. Guida Op. Cit.). Personalità così
moderne e lungimiranti per certi versi, non furono altrettanto innovative
nell’esercizio della gestione politica, amministrativa e giudiziaria del
loro territorio. La loro dimora, tuttavia, fu spesso animata da quei
fermenti di rinnovamento, che interessarono tutta l’Italia e la corte
napoletana.
Che il Rinascimento abbia lasciato segni molto significativi nel feudo di
Ajeta, si deduce, senza ombra di dubbio, dalle vestigia del palazzo
gentilizio. Questo si distingue da altre opere architettoniche coeve della
Calabria per alcune caratteristiche che lo rendono unico. Secondo la
lettura architettonica di esperti autorevoli, si presenta come una
costruzione del basso Medioevo, sulla quale sono state innestate
ristrutturazioni di stile rinascimentale di tipo campano-laziali1. Il
palazzo si caratterizza nello stile rinascimentale per la splendida
loggia, con tutta probabilità datata alla seconda metà del Cinquecento.
Il Guida (v. Op. Cit. pag. 60) suppone che per l’edificazione furono
chiamati dai signori Martirano architetti toscani. Ma i restauri
continuarono anche nel secolo successivo, sotto la signoria dei Cosentino,
che nel frattempo erano stati elevati al titolo di marchesi. Lo stile
rimase quello rinascimentale, anche dopo i restauri del ‘600, giacché
le innovazioni arrivavano con un certo ritardo nei piccoli centri come
Ajeta. Ancora oggi si notano sulla facciata principale le modifiche
apportate in quell’epoca. Vi sono i segni evidenti della sopraelevazione
che sovrasta il magnifico loggiato, i cui lavori furono effettuati in
tempi diversi e con materiali piuttosto leggeri, tali da non gravare
troppo sulla costruzione. Anche il largo cornicione che definisce la
grondaia venne aggiunto successivamente. Il loggiato, probabilmente, subì
una leggera integrazione con l’inserimento nell’arco centrale dello
stemma gentilizio dei Cosentino, rappresentato da un albero e un leone
rampante che guarda a sinistra. L’ingresso principale, con tutta la
facciata, fu cambiato mediante la chiusura di alcune finestre e con
l’apertura di balconi al loro posto. Il portale di pietra
dell’ingresso principale era sorretto da un arco a tutto sesto ed era
difeso da feritoie della torre adiacente, ma anche dalla caditoia che
sormontava l’arco stesso. Nei sotterranei si trovavano le prigioni, le
cantine e le cisterne dell’acqua. Nel piano terra vi erano il corpo di
guardia, le sale d’armi e d’attesa, la cappella, lo studio del
marchese e le sale dei suoi diretti collaboratori, la sala di ricevimento,
le sale di soggiorno, di musica, di gioco, i servizi igienici, le cucine e
le dispense. Sul piano sopraelevato vi erano tutte le camere da letto con
balcone sulla facciata principale. Ad est vi erano le due torri di
servizio con altri locali per servizi secondari. In totale, dopo la
ristrutturazione del Seicento, il palazzo aveva una quarantina di vani e
il cortile interno era lungo 28 metri e largo 10 metri. Comunque siano
state portate avanti le opere di ristrutturazione del palazzo, è
ragionevole credere che nel suo interno si vivesse una vita molto attiva e
tutt’altro che noiosa. Si può ben supporre che i baroni, prima e i
marchesi successivamente, frequentando assiduamente la corte di Napoli, ne
portarono nei loro domini le abitudini e i costumi. Non è esagerato
pensare che nelle sale della dimora gentilizia si tenessero feste,
simposi, intrattenimenti musicali, artistici e letterari.
Accanto al fiorire di attività e arti in seno all’entourage del
signore, si va maturando tra i popolani anche un’aria di fronda, dovuta
alle continue vessazioni alle quali i cafoni, i piccoli artigiani e i
braccianti erano costretti. L’esercizio della giustizia era praticato
dai signori in modo troppo autoritario e sommario. Ma gli aietani, già
fiaccati dalle continue invasioni, dalle guerre e da una tremenda crisi
demografica, dovuta anche alle epidemie, trovarono la forza di opporsi
alle pressioni e tentarono di sottrarsi al baronaggio. Questa fu una
tendenza presente in altre baronie della Calabria, rari esempi di riscatto
nella lunghissima storia del regime feudale nel Sud. Si trattò, in
pratica, della richiesta, da parte di tutto il popolo coalizzato della
universitas di Ajeta di passare allo stato demaniale, cioè di riscattare
il feudo e porsi alle dirette dipendenze della corona. Fu costituito un
Consiglio Comunale, formato unicamente da nobili non titolati, i quali
vivevano di rendita propria, che tuttavia avevano l’appoggio di coloro
che esercitavano attività libere, quali l’artigianato, la masserizia,
il commercio. In pratica, in tutti vi era la volontà di defeudalizzare il
territorio, anticipando di quasi tre secoli la napoleonica legge eversiva
della feudalità (1806). Promotore di tale progetto fu Silvio Curatolo, il
quale portò avanti presso tutti i concittadini un’opera di convinzione
per il riscatto dalle angherie del barone. Il Consiglio della civium
universitas presentò nel 1563 una petizione al viceré di Napoli, il duca
Parafa de Ribeira Alcalà, nella quale si chiedeva la conversione del
territorio di Ajeta a comune demaniale. Con l’istanza gli aietani
s’impegnavano a pagare al barone una cospicua quota di riscatto,
mediante una rigorosa autotassazione. Sebbene la richiesta fosse riuscita
a superare tutte le pastoie burocratiche e l’ispezione regia, non fu
accolta poiché il barone Giovanni Martirano non volle riconoscere ai
cittadini la libertà di autotassarsi. Inutili furono anche i tentativi
del Curatolo di rivolgersi a persone influenti presso il viceré. Ciò
provocò un’ulteriore indignazione da parte del popolo, che, con
un’azione di forza, s’impossessò della contrada Foresta dividendola
in tanti lotti. Gli assegnatari tagliarono tutte le querce e vi
appiccarono fuoco; successivamente vi piantarono fichi, ulivi e vitigni.
Il barone, su richiesta del viceré, non represse con la consueta
intransigenza l’azione rivoltosa non armata, ma pretese da ciascun
proprietario il pagamento di una rendita annuale . Il Curatolo,
amareggiato per il fallimento della rivolta e per le spietate vessazioni
personali inflittegli dai Martirano, si ritirò a vita privata nel suo
fondo, detto oggi Curatolo. Dopo la sua morte rimase nella memoria
collettiva degli aietani come un eroe civico degli ideali di libertà.
Se si pensa, quindi, al borgo di Ajeta come ad un remoto lembo del sud,
dove il progresso e la civiltà abbia inciso poco, non si considera
l’intelligenza dei suoi cittadini, né si valuta il significato
ponderante che la sua storia locale ha tratto dagli eventi ufficiali, né
la vis civica che ancora oggi contraddistingue la sua gente.
Maria Giuditta Garreffa
storica e scrittrice
1 Vedi Dimore
storiche (XVI sec.) vincolate in Calabria dal libro Un presidio di civiltà
a cura di Giorgio Ceraudo 1998. ( G. Ceraudo è stato reggente alla
Soprindendenza per i beni ambientali, architettonici, artistici e storici
della Calabria)
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