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 AIETA: OPERE D’ARTE TRA CINQUECENTO E SEICENTO - GIORGIO LEONE

Se è difficile dare alla stagione rinascimentale di Aieta una precisa periodizzazione, cioè leggere concretamente e in successione rispetto alle fonti e alla documentazione storica a disposizione gli sviluppi artistici presenti nella cittadina, risaltano invece con estrema evidenza alcune opere che, esemplarmente, permettono di delineare con molta evidenza le adesioni culturali della locale committenza a questa temperie.
Certo, anche solo dopo una prima e rapida conoscenza delle testimonianze sopravvissute si possono indicare i nessi e i tramiti della diffusione di precisi modelli e linguaggi pienamente rinascimentali, ma mancano dati concreti per ancorarli con sicurezza a essi.
L’opera più antica pervenuta è senz’altro il prospetto di custodia eucaristica, realizzato in marmo e conservato nella chiesa Matrice che, datato 1511, fu trasformato in pala d’altare durante i lavori di rifacimento tardo seicenteschi dell’edificio, creando nella nuova combinazione e presentazione un effetto di grande suggestione. Il manufatto si compone di una base rettilinea, accompagnata da due alti plinti decorati dalle facce del sole e della luna, sulla quale sono incisi due versetti biblici di ispirazione eucaristica: l’uno tratto dal vangelo di Luca (Lc 22,19), l’altro dai salmi (Sal 25(24),2). Sopra i plinti stanno le basi mistilinee di due semipilastri, con fusto ornato da candelabre floreali e capitelli compositi che sorreggono la doppia trabeazione, liscia e con finimenti di palmette e olive, completata da una grande cimasa con profilo tondeggiante tripartito, raffigurante due angeli in adorazione del Redentore Infante benedicente posto sopra un piedistallo formato dall’incontro delle volute terminali di due esili racemi che, quasi cornucopie, germinano frutta e spighe di grano e a loro volta sono sorretti da un altro basamento con iscrizione relativa al committente dell’opera: «HOC OVS FIER. F ./ DNS IOES BARLETTA». Questi è senz’altro membro di uno dei più vetusti casati di Aieta, ma certamente si vorrebbe conoscere qualcosa di più su di lui, almeno per chiarire i nessi culturali di questa sua scelta.
La singolare iconografia della cimasa, si basa su un’antica annessione dell’immagine di Gesù Bambino alle devozioni eucaristiche popolari, a loro volta dipendenti dall’unità teologica tra Incarnazione ed Eucaristia, quindi in perfetto equilibrio con la scena principale del prospetto, imperniata sul tema dell’adorazione angelica del Corpo di Cristo. Quest’ultima scena si svolge in un ambiente voltato e prospetticamente scorciato, raccordato ai semipilastri che lo inquadrano da altri più bassi e sottostanti, legati da cornice marcapiano definente lo spazio interno in profondità, e da decorazioni triangolari poste sul profilo curvo. Contempla quattro angeli in atteggiamento di adorazione posti lateralmente, come se entrassero da due aperture architravate, e rivolti verso un portale centrale, decorato da timpano, sul quale sta la lunetta con la colomba simboleggiante lo Spirito Santo attorniata da tre grandi teste d’angelo sapientemente sistemate nella volta. Il portale oggi è completato da una raffigurazione dell’Ultima cena, non coeva al prospetto che si descrive, ma con ogni probabilità realizzata al tempo della trasformazione del prospetto in pala d’altare, perché molto diversa stilisticamente e tecnicamente dall’intero bassorilievo, condotto, invece, con grande finezza e sapienza artistica. La scena del portale presenta i commensali stretti attorno a una tavola, fatta di diaspro, dove l’autore non riuscendo a dominare tecnicamente lo spazio a disposizione delinea soltanto la figura di Cristo e quella di otto apostoli, risolti per lo più con pose contorte e con una grossolana sbozzatura del marmo.
Nessun documento permette di conoscere l’autore e la provenienza di questo prospetto di custodia, la cui alta qualità certamente lo distingue dagli altri simili esemplari della Calabria e ne giustifica i riferimenti a “botteghe” o a “modelli” toscani e rinascimentali più volte avanzati dalla critica specialistica, anche quando ne è stata proposta una possibile assegnazione a scultore napoletano attivo su quella congiuntura “Tommaso Malvito - Giovanni da Nola - Diego de Siloe” che, guarda caso, proprio per l’anno in cui fu realizzato l’esemplare di Aieta, è stata già indicata e problematicamente definita dalla relativa storiografia napoletana.
Nella sua suggestione e piena corrispondenza al linguaggio rinascimentale, questo prospetto di custodia, per qualità e ispirazione si accomuna a ben pochi altri della Calabria e comunque rimane caso isolato ad Aieta, giacché le altre testimonianze cinquecentesche sopravvissute della cittadina sono tutte da collegare alla diffusione di diverse temperie culturali. Tra queste vanno annotate l’icona della Madre di Consolazione, la croce astile a forma di tralcio di vite e finanche il bellissimo loggiato del palazzo feudale che, insieme, caratterizzano in modo alquanto variegato e, in ogni modo, interessante e importante il patrimonio artistico di Aieta.
L’icona della Madre di Consolazione attualmente custodita nella chiesa Matrice si ritiene proveniente dalla vecchia chiesa di S. Nicola di antico rito greco. Stilisticamente essa è un manufatto da inserire nell’alveo della diffusione seriale della pittura di icone cretese, trovando alcuni agganci con la produzione seriale che fa capo al supposto prototipo realizzato tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento dal candioto Nicolaos Tzafuris, uno dei più noti pittori di questo giro di cultura che annovera Venezia tra i centri di espansione e di produzione. È stato rilevato che la presenza di queste icone cretesi in Calabria, più che ai supposti e comunque verosimili legami con sopravvivenze di rito greco, è da associare sia a fenomeni culturali di un recupero elitario di oggetti che richiamano il mondo greco-bizantino, come riferimento di quella cultura classica che in quel tempo si andava determinando, sia a fenomeni più ampiamente commerciali, legandole tramite i mercanti veneziani alla fornitura della seta. Per dare una risposta in merito alla domanda sul perché della presenza di questo manufatto ad Aieta, non si possiede per ora nessun elemento che faccia optare per una delle due ipotesi presentate, ma rimane l’effettiva realtà di questa icona che dimostra la vastità degli interessi della committenza locale, rispecchiandola sul suo fondo dorato punzonato, sul quale vibrano il bel rosso scuro, quasi di ciliegia spremuta, del manto della Madonna, l’acceso vermiglione e l’intenso verde imprigionati dalle crisografie delle vesti del Bambino. 
A una cultura certamente più leggibile nella sua diffusione calabrese va ascritta l’interessante croce d’argento con fusto a tralcio di vite, custodita nel tesoro della chiesa Matrice che potrebbe datarsi nella seconda metà del Cinquecento ovvero ad anni di passaggio tra Cinquecento e Seicento. L’oggetto può essere senz’altro identificato in quella «...Croce d’argento à tronco di bellissima fattura...» citata nell’inventario della chiesa del 1686 (Giuseppe Guida), ma purtroppo non appare privo di rifacimenti e restauri successivi, tanto da far ritenere che alcune parti di essa siano state addirittura sostituite nell’Ottocento. Stilisticamente e iconograficamente questa croce di Aieta, che fa capo ad elaborazioni napoletane, si accomuna a un ben nutrito gruppo di croci astili consimili e con molti esemplari presenti soprattutto in Basilicata e in Calabria, dove si possono citare a riguardo le croci di S. Pietro a Magisano, di Ioggi e di Zumpano.
Più a tono con le coordinate rinascimentali di riferimento appare il loggiato del palazzo feudale. Della storia di questo edificio, che della cittadina d’altronde è il più eloquente simbolo rinascimentale, ben poco finora si conosce: si suppone, ragionevolmente, che dall’originaria rocca medioevale esso venisse riconfigurato nell’aspetto e nelle funzioni attualmente ricostruibili nel corso del Cinquecento, ma non è ancora chiaro se ciò avvenne durante l’appartenenza di esso alla celebre famiglia Martirano, che detenne il feudo di Aieta dal 1534 al 1571, oppure a quella dei Cosentino che, subentrandovi subito dopo, lasciò la sua arme su una delle chiavi di chiusura degli archi del bellissimo loggiato.
Il loggiato si apre sulla cortina muraria del palazzo, tra balconi e finestre, con cinque archi a pieno centro poggianti su colonne tuscaniche, addossate a pilastri, e completate da eleganti balaustrate e cornicione ornato da protomi leonine. Se la lettura araldica è corretta e soprattutto se lo stemma non è un’aggiunta o una manipolazione successiva, come in realtà non sembrerebbe, la datazione dell’opera chiaramente è da considerare posteriore all’anno dell’acquisto del feudo da parte dei Cosentino, quindi già pienamente inserito in un’età e in una cultura artistica più protratte. Il loggiato di Aieta, quindi, più che una risoluzione rinascimentale nel senso stretto del termine, sarebbe da considerare espressione pienamente manieristica, recuperandolo così alla sua giusta dimensione storica e artistica e liberandolo, una volta per tutte, da una serie di ingiustificati riferimenti e non coerenti attribuzioni che, addirittura, sono giunte a chiamare il Mormando. Certo, il Manierismo è consequenziale al Rinascimento e di questo accoglie modelli e linguaggi, rielaborandoli secondo nuove concezioni, per cui non a torto, per questo loggiato di Aieta, sono stati di volta in volta proposti accostamenti e dipendenze formali da esempi precedenti napoletani, laziali o finanche veneziani.
Altre eccezionali testimonianze dell’adesione a questa cultura sono presenti ad Ajeta, come le notevoli pale d’altare di Fabrizio Santafede, pittore napoletano appartenente all’ultima classe dei manieristi e documentato dal 1576 al 1628 circa. Formatosi inizialmente in contatto con la “bottega” Marco Pino da Siena, come dimostrerebbero molti manierismi delle sue prime opere, ben presto evolve verso forme di rappresentazione realistiche e di ispirazione controriformistica, opponendosi al cosiddetto “Manierismo Internazionale” attestato a Napoli negli ultimi anni del Cinquecento. Egli, infatti, attraverso una personale visione artistica, riesce a superare l’eclettismo decorativo attraverso «...un suo severo contenutismo, una aderenza al soggetto che, pur venendo incontro a richieste devozionali, apre spiragli notevoli all’osservazione della vita quotidiana» (Giovanni Previtali). Si rivolge, pertanto, verso lo studio dei veneti e dei fiorentini, soprattutto attraverso Leandro Bassano e Santi di Tito, giungendo nelle ultime opere finanche a trovare assonanze con i primi naturalisti caravaggeschi. Del Santafede nella chiesa Matrice di Aieta sono custoditi due autentici capolavori della sua formula di più indiscutibile successo: la Visitazione, pala dell’altare maggiore, e la Madonna del Carmine col purgatorio, posta sul primo altare della navata laterale di destra.
La Visitazione pone in primo piano l’incontro tra Maria ed Elisabetta (Lc 1,39-44), sullo sfondo di una grande arcata di ispirazione rinascimentale che offre effetti di grande spazialità, di bellissimi contro luce e di grandiosità dell’impianto compositivo. Attorno alle due donne stanno Giuseppe e Zaccaria, nonché due fanciulli dei quali la bimba regge tra le braccia un cagnolino, componendo uno dei più intensi, efficaci “brani di quotidianità” elaborati dal pittore. I riferimenti culturali efficacemente rilevati pongono in essere un calcolato equilibrio tra gli elementi veneti e fiorentini della maturità con nuove suggestioni pervenutegli dal Passignano - alias Domenico Cresti - e da Alessandro Allori e quindi ne determinano una datazione nel primo decennio del Seicento (Maria Pia Di Dario Guida).
La Madonna del Carmine col purgatorio, invece, si mostra stilisticamente più evoluta, anche se non raggiunge la grandezza compositiva e artistica dell’altra. L’opera è databile attorno al 1608, o di qualche anno successiva, perché in quell’anno nella chiesa Matrice di Aieta è attestata la confraternita del Carmine e da questa sicuramente commissionata per l’altare precipuo. Il dipinto su tavola, raffigura la Madonna con Bambino secondo l’iconografia della Madonna Bruna del Carmine Maggiore di Napoli, molto attestata nella devozione confraternale delle origini, e per la Calabria, al momento, costituisce il primo documento pittorico in cui questa immagine è associata alle anime purganti, originalmente rappresentate in un lago punteggiato da fiammelle, come appunto una delle più antiche interpretazioni del purgatorio. Sullo sfondo, la figura di un angelo libera un’anima dai tormenti. Nell’iter stilistico del Santafede, questa pittura, si mostra rivolta verso gli esiti di Luigi Rodriquez e di altri pittori toscani presenti a quel tempo a Napoli.

 Giorgio Leone è storico dell’arte della Soprintendenza per il PSAD della Calabria e docente all’Unical.

Bibliografia essenziale: Biagio Cappelli, Ajeta, in «Brutium», X (1932), p. 5; Inventario degli oggetti d’arte d’Italia. II, Calabria, a cura di Alfonso Frangipane, Roma, La libreria dello Stato, 1933; Arte in Calabria. Ritrovamenti restauri recuperi, [Catalogo della mostra (Cosenza: 1976)], a cura di Maria Pia di Dario Guida, Cava de’ Tirreni, Di Mauro, 1975; Giovanni Previtali, La pittura del Cinquecento a Napoli e nel Vicereame, Torino, Einaudi, 1978; Giuseppe Guida, Aieta. Pagine della sua storia civile e religiosa, Cosenza, Pellegrini, 1991; Giorgio Leone, L’iconografia della Madona del carpione e la committenza confraternale in Calabria dal XVI al XIX secolo, in Confraternite, chiesa e società. Aspetti dell'associazionismo laicale europeo in età moderna e contemporanea, a cura di Liana Bertoldi Lenoci, Fasano, Schena, 1994, pp. 717-754; Maria Pia Di Dario Guida, La cultura artistica in Calabria dall’Alto Medioevo all’età aragonese, in Storia della Calabria Medievale - Culture Arti Tecniche, Roma, Gangemi, 1999, pp. 151-271; Pange lingua. L’Eucaristia in Calabria. Storia devozione arte, a cura di Giorgio Leone, Catanzaro, Abramo, 2002; Storia della Calabria nel Rinascimento, a cura di Simonetta Valtieri, Roma, Gangemi, 2002; Giorgio Leone, La continuità di Bisanzio nella Calabria post-bizantina, in Calabria bizantina, a cura di Valentino Pace, Roma, De Luca, 2003, pp. 127-141.