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 UN PALAZZO RINASCIMENTALE SENZA RINASCIMENTO - TONINO SICOLI

Quella della Calabria è una storia capovolta, ovvero una storia non scritta che si vorrebbe quindi non accaduta. E’ una storia di silenzi tuttavia assordanti, perché invocano stupore per una memoria impedita, per una realtà negata.
La storiografia non è democratica e si dice che stia sempre dalla parte dei vincitori. Ma la storia dell’arte come la storia della cultura in genere, si traccia e si misura con le egemonie dei grandi fenomeni, dei movimenti di pensiero, delle personalità eccelse, dei monumenti insigni, delle svolte epocali, dei periodi intensi, delle aree sviluppate. I segni della storia sono segni maggiori e le culture minoritarie solo in tempi più recenti hanno trovato dignità di studio nell’antropologia culturale, che tuttavia ha cercato più di spiegare  le strutture, le relazioni e i modi del fare e del pensare, che non di sistemare i prodotti della cultura materiale in una trattazione storica e critica che ne individuasse i termini dell’evoluzione e della qualità. 
Così il Sud e le regioni di quest’area solitamente identificate nella cosiddetta questione meridionale, hanno privilegiato una politica di riscatto in chiave di cultura popolare e di alternativa sociale alle classi dominanti, senza badare che anche in questi territori è possibile individuare una fioritura di pensiero e opere di grande qualità extra sistema, ovvero al di fuori di un contesto per altri versi fortemente arretrato.
Si parla perciò di Rinascimento attribuendo centralità alla Toscana e alle aree geografiche del Centro-Nord, ma in realtà il Rinascimento non è stato un fenomeno universale per il territorio italiano e non ha mai toccato organicamente regioni periferiche come la Calabria, imbrigliata per troppi secoli in un medioevo prolungato. Certo non sono mancati calabresi insigni, che hanno segnato la storia nazionale ma si è trattato quasi sempre di esponenti dell’aristocrazia collegati per casato alle potenti famiglie dell’epoca, o comunque di personaggi formatisi fuori dalla regione, con frequentazioni delle corti più raffinate e delle cerchie politico-intellettuali più esclusive. Il caso di Bernardino Telesio è emblematico: formatosi a Milano e Roma sotto la guida dello zio Antonio, stimato umanista, studiò filosofia e matematica a Venezia e Padova, tornando in Calabria periodicamente. A Cosenza  visse solo dal  1553 al 1565 e negli ultimi due anni della sua vita. Di fatto la sua lunga esistenza si svolse fuori dalla sua terra di origine e godette di importanti protezioni compresa quella del Papa, che certamente gli facilitarono gli studi e l’ascesa.
In Calabria ai tempi di Telesio vigevano condizioni di forte disagio, la dominazione spagnola aveva fatto sprofondare le condizioni di vita in un arcaismo sociale dominato dal sistema del latifondo e le popolazioni erano concentrate in abitati assai deboli, precari e chiusi. I centri costieri, soprattutto quelli colpiti da terremoti e da frane venivano abbandonati, il banditismo rendeva insicuri i territori, la malaria e le carestie decimavano la popolazione, pesante era il peso fiscale per poter finanziare le imprese militari spagnole.
Il feudalesimo aveva determinato la scomparsa dei villaggi e l’impoverimento delle campagne, creando tuttavia una rete di fittavoli e massari che costituivano l’unico elemento dinamico di una economia rurale peraltro in crisi.
In questo clima tormentato, in un contesto di vicende complesse e contraddittorie si inserisce la storia di Aieta, dei baroni Martirano e della rivolta popolare guidata da Silvio Curatolo per riscattare il paese dalla servitù feudale.
Qui insieme al palazzo nobiliare svettante sulla roccia, si erge un pezzo di Rinascimento “fuori luogo”, fuori contesto, in un’area che accoglie per il resto storie di soprusi sociali e segni di arretratezza, povere vicende umane sottoposte alle egemonie di famiglie aristocratiche – come i Cosentino che nel 1624 divennero marchesi -  amanti, tuttavia, delle cose belle, che non potendosi avere in loco, venivano fatte arrivare appositamente dai centri più avanzati.
L’arte sembra un lusso per questa realtà priva dei beni primari e la cultura d’importazione, anche quando sfiora appena la condizione del sottosviluppo, viene accolta come un magico dono, è il lampo di una speranza, l’accenno di un riscossa che  serve a non sentirsi completamente esclusi dai processi di sviluppo.
Aieta, piccola enclave rinascimentale in una Calabria feudale, vive così una sua condizione di bolla culturale in mezzo a vicende storiche segnate da una crisi profonda. In questa terra di isolamento, tutta arroccata nel difendere i luoghi dagli invasori dal mare, stremata da lotte intestine e dalle epidemie, fiorisce una stagione tanto effimera quanto paradossale. Un Rinascimento rubato ad una storia vietata, un’eccellenza artistica fuori sincrono per una condivisione mancata.
L’elegante loggiato ben ritmato dagli archi si riquadra su una grezza facciata di pietra a simboleggiare questo contrasto, uno scampolo di architettura manierista in un abitato rurale, un tassello di classicità in un nido d’aquila.
Nel selvaggio avamposto sull’Appennino calabro, a due passi dalla costa tirrenica, s’apre un’oasi d’arte: oltre al loggiato, l’icona della Madre di Consolazione di tipica fattura greco-bizantina (XV-XVI sec.), il raffinato bassorilievo del Ciborio (1511), l’imponente Visitazione del pittore napoletano Fabrizio Santafede (1576) e l’originale Madonna del Carmine col purgatorio sempre di Santafede (inizi del XVII sec) nella Chiesa Madre, le sale affrescate del Palazzo Martirano-Cosentino con decorazioni trompe-l’oeil.
Per secoli, anche dopo l’eversione della feudalità (1806), le vicende di Aieta oscillano fra gloria e abbandono. L’isolamento, che spesso, se non altro, ha preservato l’esistente dalle disattenzioni esterne e dalla rimozione da parte delle culture egemoni, nel caso di questa nicchia rinascimentale in terra di Calabria, ha prodotto un  progressivo decadimento nel corso dell’ultimo secolo, tanto che, negli anni Venti del Novecento, il proprietario stesso comunicava al Regio Commissario straordinario per le Antichità e le Belle Arti di Napoli di non volere più possedere l’immobile e chiedeva di “togliere la qualifica di monumento nazionale per metterci in grado di abbatterlo e vendere i materiali”.
Solo negli anni Ottanta con il riconoscimento della proprietà al Comune si sono avviati i lavori di restauro e, con essi, la consapevolezza collettiva dell’importanza storico-artistica del Palazzo di Aieta, che oggi, finalmente, si indirizza a compensare il divario con i contesti di riferimento, soprattutto in ordine al ricongiungimento di questa storia e di questi beni particolarissimi ad una più ampia storia regionale complessa e articolata. Oggi più che mai non può funzionare la formula di una Calabria, eterna importatrice di arte e cultura, che esporta manovalanza ed importa bellezza.
Cinquecento anni dopo le cronache culturali riscattano la storia mutilata, il Palazzo si appresta a vivere il suo “rinascimento”, orgoglioso di un passato grande perché sofferto, non più discrepanza storico-geografica, che trae da un altrove i pochi frammentari tratti di una grandeur accidentale, ma che, assumendo criticamente tutte le contraddizioni, sa trovare la propria identità in una riconquistata visione unitaria delle vicende culturali e artistiche dell’intero territorio. E soprattutto sa assumere il ruolo di soggetto di storia, in applicazione del principio, appunto, rinascimentale dell’homo faber fortunæ suæ.